L’avvelenamento degli animali selvatici rappresenta una pratica crudele e criminale che non possiamo più tollerare! Nonostante un’ordinanza del Ministero della Salute specifichi dettagliatamente le procedure in caso di sospetto avvelenamento, i casi denunciati portano raramente a indagini efficaci e a condanne. Perché non riusciamo a debellare completamente questa piaga?

Nell’ultima pubblicazione della nostra campagna #NonAvveleniamoci intitolata “Il Veleno – Una Brutta Storia”, abbiamo discusso delle conquiste sociali e normative contro l’avvelenamento della fauna. Una di queste è l’Ordinanza del Ministero della Salute Norme sul divieto di utilizzo e di detenzione di esche o di bocconi avvelenati (2019), che stabilisce tutte le azioni necessarie nei casi di avvelenamento o sospetto avvelenamento.
Oggi questa Ordinanza è il principale strumento che abbiamo per fronteggiare questo crimine. Ma è sufficiente? Non sembrerebbe, visto che, a fronte di un numero enorme di casi accertati, sono pochi i delinquenti che vengono individuati e ancor meno i condannati. Quali sono dunque i limiti di questo strumento?
Limiti normativi e operativi
In primo luogo, sebbene rappresenti senza dubbio un significativo progresso nella lotta contro il veleno, l’Ordinanza rimane uno strumento estremamente fragile, soggetto alla volontà politica di un rinnovo annuale. Una legge specifica sul reato di avvelenamento, attualmente assente nell’ordinamento italiano, potrebbe supportare meglio tanto il lavoro della polizia giudiziaria quanto quello della magistratura.
Inoltre, l’Ordinanza non indica espressamente di trattare la scena come una scena criminis – con la dovuta repertazione scientifica e l’attività investigativa che ciò comporta – complicando ulteriormente indagini già di per sé articolate. I veleni, infatti, sono di molti tipi, agiscono cioè in tempi e modi diversi e, di fronte alla carcassa di un animale, non è semplice capire l’origine spaziale e temporale dell’evento e, di conseguenza, in che area indirizzare le indagini. Non solo, spesso l’impossibilità di trovare il corpo del reato complica e ritarda l’avvio stesso delle indagini, che, invece, anche in sua assenza, dovrebbero partire tempestivamente.
Numerosi soggetti sono coinvolti nella gestione dei casi, ciascuno con compiti specifici e tempi precisi. Sebbene ciò garantisca la professionalità necessaria, complica notevolmente il coordinamento tra le varie figure. Chi si assicura poi che ogni compito venga portato a termine? L’attivazione del Portale nazionale degli avvelenamenti dolosi degli animali, che monitora e informatizza i casi in tempo reale, può certamente supportare il coordinamento, ma manca una “regia” centrale.

L’efficacia delle azioni potrebbe aumentare sensibilmente se la supervisione fosse affidata a un unico soggetto altamente formato su questo tipo di reato. La creazione di Nuclei Investigativi Antibracconaggio potrebbe essere una strategia vincente. A dircelo sono esperienze simili: ad esempio i Nuclei Antincendio Boschivo – parte dei Nuclei Investigativi di Polizia Ambientale Agroalimentare e Forestale (NIPAAF) – nel corso del tempo hanno accumulato competenze incomparabili nel contrastare gli incendi dolosi, proprio grazie all’elevata specializzazione su questo reato. Investimenti significativi in formazione avanzata, nonché risorse finanziarie e umane adeguate alla portata di questo tipo di crimine, potrebbero altresì aumentare le possibilità di utilizzo di strumenti innovativi, come tecniche molecolari e di genetica e veterinaria forense, per identificare i responsabili.
Infine, sviluppare protocolli di intesa tra gli organi di polizia giudiziaria e gli enti che monitorano la fauna selvatica potrebbe rivelarsi uno strumento fondamentale per le indagini. I grifoni monitorati tramite GPS da Rewilding Apennines e dal Nucleo Carabinieri Biodiversità di Castel di Sangro, ad esempio, si sono spesso rivelati le prime “sentinelle” del veleno. Analizzando i loro spostamenti è possibile capire quando uno di essi muore se il loro decesso è legato al consumo di veleno e, così, indirizzare meglio le indagini.

Sensibilizzazione e consapevolezza
È fondamentale anche sensibilizzare l’Autorità Giudiziaria. Infatti, se è necessario che le indagini siano svolte correttamente e in modo completo tanto da fornire un quadro utile alla magistratura, è altrettanto importante che i magistrati stessi siano ben coscienti della gravità e della pericolosità di questo crimine, le cui conseguenze non si fermano al solo animale bersaglio, ma estendono il proprio danno in maniera collaterale ad altre specie, all’ambiente e all’uomo.
La presenza di veleni o sostanze tossiche abbandonati nell’ambiente – si legge nell’ordinanza – rappresenta un serio rischio per la popolazione umana, in particolare per i bambini, ed è causa di contaminazione ambientale. Negli ultimi 20 anni il turismo naturalistico è cresciuto in maniera esponenziale in tutto il mondo e l’Appennino centrale non ha fatto eccezione. Il numero di escursionisti è molto più alto rispetto al passato e, poiché i casi di avvelenamento non accennano a diminuire e si verificano per lo più in luoghi accessibili a tutti, crescono sensibilmente anche le probabilità che persone, bambini inclusi, e cani, entrino in contatto con le sostanze tossiche. Alcuni veleni molto potenti, ricordiamo, possono provocare gravi conseguenze per la salute umana, anche la morte.
La domanda è se dobbiamo aspettare, come spesso accade, che un essere umano muoia prima di prendere in seria considerazione questo reato o se piuttosto non sia il momento che esso diventi una priorità assoluta per proteggere non solo la fauna selvatica e l’ambiente, ma anche la nostra stessa sicurezza.