Attraverso programmi di volontariato e tirocinio, Rewilding Apennines offre l’opportunità a molti giovani di fare esperienze professionali e di vita a diretto contatto con la natura. Questa è la storia di Elena Viti.
Sono a Parma, seduta nella piccola scrivania del mio studio di fronte al computer. La finestra della mia camera si affaccia a un paesaggio bianco e spento, con i palazzi che si stagliano su un cielo vuoto. Ho cominciato la facoltà di agraria un anno fa, dopo una triennale in economia, entusiasta all’idea di tornare finalmente ad usare la mia manualità e a sporcarmi le mani di terra. La pandemia ha cambiato le carte in tavola un po’ per tutti, ed ecco che mi ritrovo a seguire il corso di potatura al computer… e la noia mi assale.
Un pensiero però continua a frullare nella testa. Non riesco a fare a meno, infatti, di ripensare all’esperienza trascorsa qualche mese prima in un piccolo borgo arroccato sulle montagne abruzzesi. A Pettorano sul Gizio ho avuto la fortuna di seguire per quattro densissimi giorni uno dei seminari più innovativi degli ultimi tempi, il Rewilding Economy Seminar. Da studentessa di economia agroalimentare ero infatti un po’ stanca di sentire continuamente termini come “ridotto impatto ambientale, sviluppo sostenibile, economia del riciclo” svuotati dei loro significati originari, usati solo come furbissime etichette di marketing per acchiappare i consumatori più sensibili. Tornare a parlare concretamente di economie di rigenerazione basate sulla natura è stato come aprire una finestra su nuovi orizzonti più verdi, ma soprattutto, più selvaggi. Il tema del selvaggio e dunque del rewilding, è stato, infatti, approfondito legandolo a un concetto per me fino ad ora sconosciuto, ovvero quello della coesistenza. Coesistere significa riconoscersi parte integrante della natura e non altro da essa, significa uscire dall’individualismo antropocentrico che ci pone soli al centro dell’universo. Significa riscoprire quel senso di meraviglia suscitato dalle connessioni apparentemente invisibili che legano la nostra specie a tutte le altre, dalle più grandi alle più microscopiche. Significa anche pensare agli ecosistemi e ai paesaggi non come qualcosa di intatto e immutabile, ma in continua trasformazione e dialogo con le attività umane. Significa co-creare e co-pensare nuovi mondi possibili insieme alle innumerevoli forme di vita che ci circondano.
Ecco che nel bel mezzo di queste considerazioni e di una ormai non troppo lontana crisi mistica, decisi di riscrivere al Team di Rewilding Apennines (RA), questa volta in veste di studentessa di agraria. Il mio interesse era infatti quello di approfondire le progettualità da mettere in campo in un contesto di agro-rewilding.
A marzo sono tornata dunque a Pettorano, prima Comunità a Misura d’Orso d’Italia, la cui peculiarità è proprio quella di trovarsi collocata all’interno di uno dei corridoi ecologici dove RA interviene con attività di mitigazione dei conflitti tra comunità umane e fauna selvatica. All’interno di due di questi corridoi ho cominciato un lavoro di mappatura delle aziende dell’agroalimentare, col fine di iniziare in futuro un percorso di affiancamento con RA. Ho dunque condotto per due mesi interviste a pastori, agricoltori, allevatori, ma soprattutto apicoltori, raccogliendo informazioni sociodemografiche e strutturali, analizzandone criticità e potenzialità di sviluppo. Quelle che sembravano inizialmente delle semplici raccolte dati si sono trasformate in biografie, frammenti di vita, racconti di resistenza e estremo attaccamento al territorio. A volte questo attaccamento suscitava sentimenti di rabbia e frustrazione, altre volte una certa nostalgia rispetto a tempi ormai passati, altre volte una pace ritrovata e un rinnovato senso di meraviglia per una natura che sta lentamente e autonomamente riprendendo i suoi spazi, offrendo una maggiore biodiversità e migliori servizi ecosistemici, dunque migliore qualità della vita.
Per ripercorrere alcuni frammenti della mia esperienza in Abruzzo ho deciso di usare i cinque sensi. La monotonia delle giornate tutte uguali a se stesse e la sedentarietà dei giorni di lockdown mi avevano quasi portato a dimenticare cosa significhi sentire e percepire realmente le cose.
Il primo giorno trascorso in Abruzzo l’ho legato al tatto. Ignara di quello che mi avrebbe aspettato andando a “caccia” di carcasse con il Field Officer di RA, mi sono ritrovata a scalare una montagna non propriamente comoda, almeno secondo i miei standard. Osservare innumerevoli piccole pietre sulle pendici cadere al mio passaggio suscitava la sensazione non troppo fantasiosa che anch’io avrei potuto fare la stessa fine e, inesorabilmente, rotolare giù, verso valle. Ecco che cercavo in modo rocambolesco di aggrapparmi a qualche ciuffo di erba che trovavo di tanto in tanto. Le mie mani nude a contatto con la nuda pietra. “Mai come in questi momenti devi ricordarti di essere bipede”, mi incoraggiò Angela. Così ho imparato a fidarmi dei miei piedi, anche sulle pendici più scoscese, ma soprattutto, una volta superata la paura di guardare in alto, ho avuto il piacere di fare il mio primo incontro con sua maestà il grifone.
A sfide tanto impervie ho alternato momenti più “soft” di costruzione dei recinti elettrificat
i nelle aziende agricole. Non è mancata dunque un po’ di sana pet therapy, spupazzando cuccioli di asini, animali tanto docili quanto fieri e coraggiosi. Proprio loro, infatti, si dice accompagnassero il pastore in montagna per difendere il gregge dai lupi.
A proposito di pastori, non potrei non dedicare un pensiero al gusto indimenticabile
dei formaggi di Virginia, ex studentessa di agraria a Bologna che ha deciso di tornare nella sua terra d’origine a Pacentro per lavorare in quel che più le dà gioia. Qui ogni formaggio acquisisce un sapore tutto suo e, fatto un po’ di allenamento, è possibile persino riconoscere i diversi tipi di erbe di cui gli animali si sono nutriti, che magicamente trasferiscono il loro profumo al latte. Trascorrere del tempo in famiglia, tra un cucchiaio di ricotta fresca ancora calda e un bicchiere di vino Alla Casa Vecchia, è stato come sentire il calore di casa.
L’olfatto è certamente uno dei cinque sensi che più si affina insieme all’udito quando si cammina per luoghi selvaggi e incontaminati. Non posso non ricordare l’incantevole profumo di primavera che ho respirato nell’aria di aprile, passeggiando per uliveti, vicino alla Riserva Naturale Monte Genzana Alto Gizio.
Il suono, invece, lo associo a quello dell’incessante scorrere del Gizio nel parco di archeologia industriale di Pettorano, le cui sponde sono state sede di idillici picnic e lezioni di Qi Gong sotto la guida di Antony, un artista che ha messo radici nella Comunità a Misura d’Orso.
Per quanto riguarda la vista non c’è molto da aggiungere, se non un invito a scoprire paesaggi mozzafiato di borghi antichissimi sopravvissuti alla storia, arroccati come presepi su pareti ripide e rocciose.
Questa esperienza mi ha insegnato tanto, offrendomi l’opportunità di mettermi delle volte nei panni di un’ecologista, montando fototrappole e monitorando le comunità animali del territorio, altre volte nei panni di un’attivista, collaborando alla costruzione di recinzioni elettrificate; altre volte ancora in quelli di una giornalista, raccogliendo i racconti di chi vive il territorio con affetto e sudore.
Per esplorare quali future e inusuali relazioni potremo mettere in gioco con le specie che ci circondano e ci accompagnano in questo viaggio sarà essenziale armarsi di creatività ed empatia. Da studentessa di agraria e appassionata di ecologia lascio dunque questa esperienza con una domanda: può ciò che mangiamo diventare il punto di partenza di un percorso di riconnessione alla natura e agli ecosistemi che ci sostengono, salvando le specie in pericolo? Forse è un pensiero un po’ audace, ma chi in fondo può promuovere attività di conservazione migliori se non i contadini autoctoni, che vivono il territorio da sempre? Proprio loro sono i custodi di risorse genetiche, essenziali per una più pacifica coesistenza con la fauna selvatica, nonché potenziali strumenti di adattamento a un cambiamento climatico ormai incontrovertibile. Proprio loro potrebbero divenire i pionieri di un Food Rewilding Movement, ricreando le condizioni favorevoli affinché la biodiversità possa tornare a prosperare non solo nel selvaggio, ma anche nell’attività che forse più di tutte riconnetterà l’uomo alla terra, l’agricoltura.